Leggerezza. Una sensazione, uno stile di vita, una condizione dell’animo umano. Un auspicio, una tensione ottimistica che stiamo smarrendo. La leggerezza è lo stucco della vita, che va coltivato, va desiderato, ricercato di giorno in giorno. Quella leggerezza che ci passa di fianco, ci sorride, saluta e se ne va, dovrebbe lasciarci un vuoto dentro, invece la lasciamo scappare. E lei se ne va, sola, senza che nessuno abbia il buon cuore di rincorrerla. Tanto agognata, tanto nominata da tutti, è, specie di questi tempi, quanto mai distante dalle nostre vite.
Una riflessione è d’obbligo. Partiamo con una considerazione generale, usiamo il grandangolo. Considerate i mali che affliggono la società civile: la politica non sa decidere il futuro del popolo che rappresenta, il popolo schiamazza, urla vergogna senza rimboccarsi le maniche. C’è chi si prende troppo sul serio e perde il significato intrinseco della vita. Oppure c’è chi è talmente perso tra le nuvole che di significati non ha mai sentito parlare. C’è chi ha dato troppo e ricevuto nulla, e chi ha avuto tutto e vivacchia, più o meno legalmente, alla faccia di chi si spezza la schiena. E il risultato, percepito come una diffusa sensazione di malessere, che si guardi da destra o da sinistra, è il medesimo: la perdita della bussola.
Viene da chiedersi il perché, e lì si apre un baratro profondissimo. Dovremmo trovare le cause comuni, mentre siamo capaci solo di puntare il dito. La colpa è sempre altrui: funziona così, c’è poco da fare. Il problema, invece, è unico: dal malcontento non si passa mai alla costruzione di un qualcosa di nuovo. Par quasi che l’immaginario ponte che collega il fronte della protesta a quello della proposta sia sempre rotto, sempre bloccato per lavori in corso.
E l’ingorgo, gigantesco, sta rovinando tutto. La cosa pubblica e la cosa privata, il mondo del lavoro, la bontà dei capitali sociali che costruiamo, il senso civico, che non esiste più. Nessuno sa più che strada prendere, e tutti imboccano quella più breve. Pure nel mondo del calcio, dove non dovrebbero esserci problemi di questo tipo.
Pensate se non è vero: ogni lunedì è un piagnisteo continuo, che si protrae per settimane e settimane. E qui veniamo al dunque: la leggerezza, qualcuno se la ricorda ancora? Almeno nelle passioni, siamo in grado di cucircela addosso? Vorremmo dire di sì, ma la realtà costringe a proferire un “no” a caratteri cubitali.
Il tanto abusato riferimento al gruppo, spesso è inopportuno. Tante sono ancora le remore, tanti i personalismi, ed è incredibile l’incapacità di accettare le diversità di vedute. Ineffabile è il rapporto con gli arbitri: i linguisti dovranno darci dentro, per trovare l’aggettivazione adatta. La sportività è come la neve d’aprile: non c’è.
Perchè? Perchè manca la leggerezza. Manca la genuinità del saper non prendersi troppo sul serio, unita alla volontà di non perdersi nel relativismo, che fa da contrappeso. Manca l’aurea mediocritas, il giusto mezzo con cui navigare nel mare della vita. Se n’era accorto Orazio ai tempi dell’antica Roma, ce ne accorgiamo noi millenni dopo.
Sarebbe bello se ce ne accorgessimo, sarebbe opportuno provare ad intuire una via d’uscita, sarebbe idilliaco tornare a giocare col sorriso sulle labbra, come ai tempi dell’oratorio. Sarebbe, sarebbe, sarebbe. Siamo stufi del condizionale: è l’ora dell’indicativo. La grammatica, e non solo, ce ne sarebbe grata. E’ retorica, trita e ritrita, forse. Ma a volte ci vuole.
Ormai la stagione volge al termine: concludiamola bene. L’augurio è che l’estate porti consiglio, freschezza, idee nuove. Magari arriverà un giorno, in cui le ipotesi diventeranno certezze, e tutti smetteremo di lamentarci. Sarà il giorno in cui ci alzeremo dal letto e, davanti allo specchio, rivedremmo l’espressione più docile, più umana e spontanea: il sorriso, che da troppo tempo abbiamo smarrito.