Le rotte del dio Denaro: rimborsi o stipendi nel calcio?
by Redazione Calcio Dilettante Veronese 31 Luglio 2013Lungo le rotte del dio Denaro la specie umana vaga spesso senza meta, speranzosa, celando dietro un’inopportuna compostezza la malsana voglia di scomporsi, di sciogliersi come neve al sole, davanti al piatto della tentazione. Il malcostume è noto. S’insinua nella vita, nel lavoro, nel mercato. L’evasione fiscale è solo una delle sue manifestazioni. S’insinua pure nel calcio, con dinamiche che sfiorano il grottesco.
Da tempo si parla, spesso a sproposito, di crisi, di mancanza di liquidità, di progetti non finanziabili. Che la crisi prosciughi l’economia di un’Italia che stenta a ripartire è vero: c’è l’oggettività dei dati statistici. Riferita alla sfera dilettantistica del pallone però, la questione fa sorridere.
Perchè se c’è una misura in tutte le cose, come poetava Orazio, il problema, nel nostro mondo, non andrebbe nemmeno posto. Partiamo da un presupposto: il calcio è uno sport. Un gioco in tutto e per tutto, in particolare modo a livello dilettantistico. Detto ciò, va fatta la contro-considerazione: anche nel dilettantismo, c’è qualche parvenza di professionismo. Gli impegni si moltiplicano, gli sforzi richiesti pure. Giusto o sbagliato che sia, il problema è il seguente: più si cresce, più aumentano i costi. Serve una gestione oculata dell’intero movimento sportivo, per non dispendere ingenti capitali umani e sociali.
L’investimento nel pallone infatti, ha un suo senso, se proiettato al futuro. Quando c’è lungimiranza, un progetto merita d’essere preso in esame. Il male incurabile è altrove. Esiste a livello delle prime squadre: i rimborsi erogati, sono rimborsi, o stipendi?
Forse a qualcuno la differenza sfugge. Un rimborso è una cortesia, un atto dovuto di una società che richiede un impegno costante e lo ricompensa. Uno stipendio è un salario vero e proprio, una fonte di guadagno promessa senza un motivo concreto, sulla quale chiunque potrebbe destinare parte delle proprie aspirazioni.
Ponetevi il seguente quesito, forse antipatico, forse impopolare: con quale coraggio è lecito ipotizzare un guadagno con un’attività sportiva, per giunta dilettantistica, alla faccia di chi lavora otto ore al giorno, e stenta ad arrivare alla fine del mese?
Capite che il paragone non regge. C’è il buonsenso e il non senso, nel giudicare. E’ inopportuno esprimersi col paraocchi della convenienza. Chi ha goduto dei tempi d’oro, dei periodi di “vacche grasse”, per usare una espressione gergale, ha vissuto in una dimensione aumentata, parallela alla realtà e al di fuori di ogni logica.
Perchè chi pretende e riceve non ha colpe. E’ chi, spinto da incommensurabili devianze dell’umano agire, concede compensi spropositati, che scivola nell’inspiegabile. Perchè se da un lato è vero che chiunque può servirsi liberamente dei soldi che ha guadagnato, dall’altro è altrettanto palese che l’esagerazione, perchè di esagerazione parliamo, genera una diffusa e distorta convinzione che certe cifre, nel calcio, siano d’obbligo, quanto mai comprensibili.
Non c’è niente di più falso. Passi per la benzina da rimborsare, l’usura della macchina, il tempo speso. I rimborsi a certi livelli, anche dilettantistici, devono esserci: è normale, corretto ed umano, ricompensare chi spende del tempo e delle energie al servizio di una causa.
Il punto è non uscire dalla dimensione in cui ci si trova. Sempre di dilettantismo parliamo: massimo venti ore a settimana, stando larghissimi. Capite come si rasenti l’illogico, elargendo somme pari a stipendi regolari in busta paga. Fate le vostre considerazioni: il dibattito è aperto e non terminerà ora. Ma tenete in mente una cosa: il senso del limite esiste, così come il buonsenso. Spogliatevi di ogni tentazione, allontanate per un istante la convenienza, il malsano istinto di unire il diletto all’utile, nel senso più economico del termine. V’accorgerete quanta verità, quanta dignità siano presenti, tra i significati di queste righe.