Franco Ferrari, storia di una carriera infinita e di una passione irriducibile. Per il calcio, e non solo
by Redazione Calcio Dilettante Veronese 20 Settembre 2013C’è un unico aggettivo, forse, in grado di descrivere compiutamente, in un’istantanea, la storia, la carriera e le mille vicende della vita di Franco Ferrari: Irriducibile. Scritto così, con la “I” maiuscola. Sì, irriducibile, come un numero primo. Prima calciatore, poi allenatore. In campo e in panchina, lungo le strade dell’Italia, irriducibile fu la sua passione, la sua tempra, l’intensità con cui visse, per oltre quarant’anni, la sua storia nel pallone.
Irriducibile fu l’amore per la moglie Lucia, la donna della sua vita, che l’accompagnò sempre, con gli occhi, con il cuore, il groppo in gola per la tensione e la voglia di ricongiungersi, ogni volta, calmate le acque, con l’amato compagno. Sempre. Anche quando le sirene e i barlumi della ribalta potevano segnare la fine del rapporto.
L’upper class Franco Ferrari la vide da vicino, la toccò con mano, nè sentì la vicinanza, gli umori, le chiacchiere, le avances. Fu tentato, a 22 anni. Ma non andò. Le strade da seguire erano altre. A Verona, la sua Verona. Con Lucia al fianco, il pallone tra i piedi, la voglia di pensare la vita all’insegna della concretezza. Erano altri tempi. Non serve sempre volare per essere felici. Allora, come oggi.
La famiglia prima di tutto. Poi il lavoro, e infine il calcio, che non poteva mancare, e non è mai mancato. Neanche quando Ferrari ha deciso di dire basta, di appendere al chiodo tutto quel che l’aveva abbracciato per una vita intera, per godersi la pace del meritato riposo.
Ci hanno pensato i suoi figli, Michele, il più grande, e Gabriele, a continuare il suo rapporto col pallone. Un rapporto diverso, ma sempre intenso. Perchè quell’occhio che seguiva i due bimbi per i campi era quello di un padre, di un allenatore e di un ex giocatore. Non un occhio qualsiasi. Impossibile resistere.
Anche la storia di Michele e Gabriele è piena di aneddoti, spesso legati al padre Franco. Come quel giorno in cui a Verona venne la Sampdoria a organizzare un provino. Mancava il libero, fu mandato Michele. Al termine della partita il piccolo Ferrari venne richiesto. Sul piatto c’era un biglietto per Bogliasco, il quartier generale doriano. Franco rifiutò, non se ne fece nulla.
O come quell’esordio mancato col Garda di Gabriele, in Prima Categoria, quando in panchina sedeva il padre. Da una settimana d’allenamenti il posto era sicuro. Mancava il terzino sinistro, Gabriele, all’epoca in età Juniores, era il sostituto. Dieci minuti di ritardo nel rientro dal sabato sera però, costarono caro. La domenica Franco lo relegò in panchina. Perchè le regole sono regole, coi figli prima di tutto.
Perchè il pallone a casa Ferrari è il simbolo di una vita, di un’amore e di una famiglia intera. E’ il focolare domestico, l’argomento di conversazione, lo stucco dell’esistenza. Da sempre.
Scopriamolo insieme. Piano piano, lentamente. La storia merita d’esser raccontata con calma, come quando si legge una fiaba ad un bambino.
Franco Ferrari, la sua storia è il romanzo di una passione irriducibile. Dove vuole iniziare?
“Iniziamo pure da quando arrivai in prima squadra, l’epoca in cui giocai quattro anni nei semiprofessionisti”.
Parta con il racconto, Franco.
“Feci due stagioni a Macerata e due a Porto San Giorgio, alla Sangiorgese, nelle Marche. Disputai sessanta partite segnando venticinque goal. Ero un regista, avevo il numero dieci e un sinistro caldo, potentissimo”.
Qual era il suo colpo migliore?
“Il dribbling, saltavo spesso l’uomo. Ma anche le punizioni, ne segnai moltissime”.
Quali compagni ricorda con piacere di quel quadriennio?
“I migliori, Diomedi e Brizzi che andarono alla Fiorentina, Bovali che andò all’Inter, e poi Vieri, il padre di Christian. Giocai anche assieme a lui”.
Che ricordo porta dell’allenatore di quelle annate?
“Ottimo, sia di Viani che di Viciani. Soprattutto di Viciani, conservo ancora un ritaglio di giornale in cui parlava benissimo di me”.
Poi non andò avanti, non sfondò nel calcio che conta. Come mai?
“Ricevetti molte offerte, alcune davvero curiose. Ai tempi non c’erano i telefonini, ti chiamavano a casa, e mio padre riattaccava, o diceva di no. Non voleva mi allontanassi. Un giorno il Pescara mi offerse un contratto in bianco, ma rifiutai. Scelsi un altro tipo di vita, che mi ha dato un sacco di soddisfazioni. Per cui io, di rimpianti, non ne ho nemmeno uno”.
Passiamo al suo trascorso nei dilettanti. L’annata più bella da giocatore?
“A Peschiera, in Serie D. Arrivai che eravamo ultimi, arrivammo terzi, e l’anno dopo secondi. Fu un biennio fantastico”.
La più intensa da allenatore invece?
“A Cerea, presi una squadra di ragazzini e la forgiai. Quello era un gruppo vero, il migliore che ho avuto. Lanciai gente come Tamagnini, fu un grande anno”.
Il giocatore più forte che ha allenato?
“Tanti. Dico Tamagnini, Frinzi, Vicentini, Tommasi, che ora allena Bussolengo, Luciano Cherobin al Tregnago”.
Il campione mancato?
“Strazza, con la palla faceva quello che voleva. Ma non aveva la testa, per fare il calciatore ci vuole quella, prima delle doti”.
L’anno in cui allenò una corazzata?
“L’Officine Bra, senza dubbio. Quella squadra era fortissima”.
Poi sbarcò nel calcio in rosa. Il ricordo più bello?
“Il campionato di Serie D vinto con l’Intrepida Verona, 35 partite e 35 vittorie. Ma anche la grande cavalcata col Mozzecane Femminile, in cui presi la squadra all’ultimo posto e arrivammo primi, con nove punti di distacco sulla seconda”.
La ragazza allenata che porta nel cuore?
“Denise Gardone, una ragazza sordomuta. Venne convocata per i mondiali dei diversamente abili e fu nominata miglior giocatrice. Anche per me, che l’avevo allenata, fu una grandissima soddisfazione”.
Passiamo sul personale. Chi fu il suo maestro?
“Ce ne sono tanti, ma ne cito uno in particolare: Romano Mattè. Quello fu il mio più grande maestro di calcio, e di vita”.
Dovesse individuare una caratteristica che l’ha contraddistinta in tutta la carriera, cosa direbbe?
“La serietà. Il calcio, per me, prima di tutto è serietà, pur essendo un divertimento”.
Concludiamo, Franco. Ci lasci con un messaggio ai giovani.
“Abbiate voglia, umiltà e la capacità di condurre una vita sana. Sempre. Io l’ho condotta e non mi è mai mancato nulla. Dovete avere la forza e il buonsenso di gestirvi e di curare voi stessi, nel calcio come nella vita”.