Massimo Costa si racconta. Diciott’anni di Virtus, una vita tra i legni, e la poesia dei numeri uno da tramandare ai posteri
by Redazione Calcio Dilettante Veronese 7 Novembre 2013Un’icona, un simbolo, un maestro. Di calcio e di vita. La sua carriera è una piccola fiaba. Tutta da raccontare, pagina dopo pagina, con la giusta lentezza. Con la calma necessaria per gustarla appieno. Ogni riga va letta con attenzione: chi ha fretta e sorvola perde il filo del discorso. Pazienza e curiosità: armatevene, il personaggio le merita tutte.
In ogni passaggio c’è un aneddoto da scoprire, un significato mai banale da riportare in superficie. Dalle sue labbra, pende l’umano romanzo di una passione che ha forgiato prima un uomo e poi un calciatore.
Dici Massimo Costa e vedi la Virtus. La Virtus favola tutta veronese, sorella minore di quel Chievo che dodici anni fa stupì l’Italia intera. La Virtus che mette il frac al gran ballo tra i Pro e tenta l’impresa salvezza. La Virtus di Fresco e Verzè, gli unici a superarlo per annate in rossoblù. La sua Virtus. Che l’ha cullato, visto crescere, parare, gioire, passare dall’altra parte della barricata, insegnare l’arte a chiunque passava per le sue mani. Prima giocatore, poi maestro dei portieri. Per diciotto lunghi anni. Parte della sua storia è scritta tra le mura del “Gavagnin-Nocini”, una sorta di seconda casa.
L’ha scritta anche lui, con le mani guantate, quando ancora era un portiere. E che portiere. Calcò i campi della Serie B, a Cremona, dove conobbe Gianluca Vialli. Fu, per anni, un buon guardiano a metà tra la D e la C di allora. Poi scoprì la Virtus, se ne innamorò: non la lasciò più. Smise a 44 anni vincendo un campionato d’Eccellenza. Non un addio qualsiasi.
Da diciotto anni ha i colori rossoblù cuciti addosso. Gigi Fresco è stato suo allenatore, suo mentore, suo amico, suo compagno di animate discussioni. Ma soprattutto uno con cui condividere sogni. Costa non esita a confermarlo.
“Siamo diversi, c’è stima reciproca, ma la cosa che più ci unisce sono i sogni. Anche se, devo dire, io sono un po’ più melanconico rispetto a lui”.
Un rapporto lungo una vita. Che ancora oggi prosegue, nell’anno più bello e più difficile insieme. C’è un’impresa da compiere: salvare la categoria. Serve un miracolo: Costa non si è tirato indietro. E’ ancora lì, al suo posto, con le bullonate ai piedi, il pallone tra le mani guantate, pronto a tramandare l’arte ai suoi eredi. Paleari innanzitutto, in gran spolvero sinora. Ma anche Pavanello: giungerà il suo turno, prima o poi. Il ragazzo ha doti importanti: arriverà anche la sua occasione. Loro come tutti gli altri. I suoi figliocci. O i figli, come dice lui, “della poesia di un ruolo, quello del portiere, che mi ha permesso di giocare fino a 44 anni, facendo sacrifici, allenamenti in condizioni impossibili, qualche follia. Sì, follia, chi ha il numero uno sulle spalle deve aver un po’ di sana follia. E’ una condizione imprescindibile per fare il portiere. Se non c’è, si è qualcos’altro, ma non un portiere”.
Costa, si nota, ha una concezione tutta sua del ruolo del portiere. L’ha maturata negli anni, scavando e rivangando all’interno della sua coscienza da numero uno.
“Il ruolo del portiere è poesia pura. Le parate, le solitudini, i guizzi, gli errori: la nostra storia è fatta di attimi. Nessuno può permettersi di raccontare il pallone come potremmo noi. Ogni portiere ha, dentro di sè, un che di poetico. Ne sono certo”.
Poesia pura. Quella del portiere, certo. Ma anche quella della Virtus, la sua seconda casa, e la sua famiglia allargata. Diciotto anni sono una vita. Per lui, sono stati lo stucco della sua esistenza.
“Della Virtus porterò nel cuore molte cose. Riportarne in superficie alcune significa sicuramente tralasciarne altre. Però ricordo i viaggi, esperienze uniche. Ce n’è uno che mi è rimasto dentro. Mi ha toccato nel profondo. Eravamo a Sarajevo, in Bosnia. Era appena finita la guerra, giocavamo su un campo che fino a pochi mesi prima era un cimitero. In una di quelle solitudini che noi portieri viviamo in partita, realizzavo che sotto di me c’erano delle vite andate in fumo per la prepotente inutilità della guerra. Quell’esperienza mi ha segnato”.
Viaggi, ma anche rapporti umani, gioie condivise, come quella di giocare l’ultima gara nel campionato in cui la Virtus passò dall’Eccellenza alla Serie D.
“Un regalo bellissimo che mi fecero – commenta Costa – quell’anno c’era un gruppo eccezionale. Avevamo un fisioterapista ed un medico che entravano in campo sempre assieme. Nella giacca, sul retro, uno aveva scritto “ST”, l’altro “AFF”. In due, formavano lo staff medico. E’ una chicca che simboleggia quanto la Virtus era un tutt’uno al tempo”.
Nel suo flusso di ricordi però, non c’è solo la Virtus. Anche il passato ante-Virtus è tutto da raccontare: le giovanili del Mantova, la B a Cremona, gli anni a Viadana. E un piccolo grande aneddoto, che in pochi, forse, conoscono…
“Non ero un portiere – sorride Costa – giocavo difensore centrale. A quindici anni decisi di smettere e di mettermi in porta. Da tempo sentivo la voglia di mettermi tra i pali, non c’era però la possibilità. Quell’anno iniziai a giocare portiere nel San Lazzaro a dicembre. A giugno mi prese il Mantova: lì iniziò la mia carriera tra i legni”.
Una carriera che trova la sua prosecuzione nei tanti, tantissimi allievi passati sotto la cura di Massimo.
“Divenni preparatore su richiesta di Costanzi, il responsabile del settore giovanile del Chievo. Poi venne la Virtus, e per dieci anni allenai al pomeriggio al Chievo, alla sera la Virtus. Ora c’è solo la Virtus, ho fatto una scelta, sono contento così. Nei miei ragazzi vedo la poesia che avvertivo in questo ruolo da giocatore. Vedo in loro voglia di fare, di imparare divertendosi. Con educazione, e rispetto dei ruoli. Perchè prima viene l’uomo, poi il giocatore”.
Chiedergli di nominarne qualcuno, è quasi un’impresa.
“Faccio fatica a nominare alcuni portieri e a tralasciarne altri. Ne ho avuti moltissimi. Parlo per quelli che ho avuto in Virtus: cito Sonato, Morandini, Biroli e Chiamenti, che alleno ancora oggi”.
Quando giocava, Costa, anche lui, suo malgrado, ha dovuto ascoltare il sordido saluto di un goal, il beffardo rumore di un pallone che s’insacca dietro le sue spalle.
“Ce n’è uno in particolare che ricordo benissimo. Me lo segnò un amico, Araldi. Il giorno dopo mi recapitò per posta la scarpa destra con cui mi aveva segnato. E’ un aneddoto curioso della mia carriera, ancora oggi mi fa sorridere”.
Oggi, nei sogni condivisi con Fresco, ce n’è uno in particolare. Rimanere tra i pro avrebbe, per la Virtus, un che di mistico, di ineffabile bellezza mista a stupore. I mezzi ci sono, la speranza è quella di non svegliarsi sul più bello.
“Il segreto è mantenere la concentrazione, sempre, dentro e fuori dal campo. Vogliamo fortemente questa salvezza, per noi equivarrebbe ad entrare nella storia. Sono momenti da incorniciare, anche questa è poesia. Mi auguro che tutti abbiano, in cuor loro, la volontà di crederci e di lottare fino alla fine per questo obiettivo, che per me, lo ripeto, equivale ad un sogno”.
Riccardo Perandini
Direttore Editoriale Calcio Dilettante Veronese