Agosto è volato, leggiadro come sempre. Mese dannato e incantevole, incline tanto alla fatica quanto all’ottimismo più letterario. Calura e preparazione, sudore e solleone. Tra i sentieri del calcio, l’incedere dell’ottavo mese dell’anno prepara ad un lento, romantico e stucchevole ritorno alla ritualità prepartita. Dopo l’epica delle sensazioni dettata dal ritorno in campo, l’arrivo delle gare di Coppa riporta negli spogliatoi quanto di più curioso esista nel mondo del calcio: i riti, sempre oscillanti tra il preparatorio e il propiziatorio. Scaramanzie e particolarità nella vestizione, la retorica degli allenatori e l’atteggiamento dei giocatori. La lista potrebbe continuare, ma fermiamoci qui, e proviamo a (s)ragionare: la prima, meriterebbe un libro a parte.
La scaramanzia dilettantistica non è una superstizione, è una scienza irrazionale, che parte dalla psicologia e sprofonda nella statistica. C’è chi la reputa un supporto per la concentrazione, chi una fede degna di riti e liturgie, chi un insieme di coincidenze figlie di certissimi rapporti di causa ( il rito) ed effetto (l’esito della partita). Il suo valore, spesso metafisico, è ancora ignoto ai più. Ma una cosa è certa: presa a piccole dosi, la scaramanzia è ancora oggi un elemento irrinunciabile nella preparazione di una partita.
La vestizione è invece una procedura pittoresca, figlia dell’abitudine e di credenze consolidate. Il suo evolversi, passa dall’utile all’improbabile: si parte dallo stiracchiamento dei calzettoni, talvolta allungati fino al limite della rottura. Tralasciando il periodo estivo, poco avvezzo a simili cerimoniali, s’arriva poi al toccante momento del “vestirsi a cipolla”, in cui l’intento di combattere il freddo mette a confronto ferree tradizioni e futuribili tecnologie. La lana contro l’abbigliamento termico, il pile contro i sistemi “wind-stop”. Lo scontro, si dice, è ancora senza un vincitore.
Infine, si giunge al momento topico: la cura della calzatura. La questione, vive di leggende metropolitane: c’è chi mette il grasso ovunque, anche nelle scarpe di plastica, chi lava la scarpa e la ingrassa prima di giocare, chi, bieco e rude, non lava mai nulla e gioca così, con due fossili al posto dei piedi. E pazienza se il pallone poi vola in tribuna.
Voltando pagina, passiamo ad un altro rituale: il discorso dell’allenatore. L’argomento, è degno di analisi sociolinguistiche. La retorica degli allenatori è uno degli ingredienti fondamentali per la riuscita dello spettacolo calcistico. Essa parte dai puristi più spartani, che fanno della sintesi e del dialetto le loro armi di battaglia. Ci sono poi i tattici, che sovrappongono sproloqui a soliloqui, uccidendo l’attenzione dei giocatori. Sul lato opposto troviamo invece i rubicondi e i paonazzi, che comunicano col colore del viso, e quando sono arrabbiati abbaiano come labrador inferociti. Infine, loro, i figli di Coverciano. Inquietanti per natura, girano con la lavagnetta sotto braccio, altezzosi, e sul volto portano un sorriso sornione, studiato anche quello sui libri. Poi un giorno entrano in campo, e l’insofferenza dei calciatori si legge nei loro occhi : peccato, modernità non fa rima con sintonia. Pensate se non è vero, e non c’è neanche scritto sui libri.
Concludiamo con loro, i calciatori, che, forse, nel pregara danno il meglio di loro stessi. Guardateli, mentre cercano di trovare la concentrazione. Uno osserva il vuoto, sperando di riempirlo. Un altro gironzola silenzioso, accompagnato dai propri pensieri. Un altro scruta gli avversari, poi guarda i compagni, cercando un’occhiata d’intesa. In quel mentre, scorre l’attimo fuggente: il ritorno al calcio vero è una questione di sguardi, dove, una volta tanto, non servono parole per farsi capire. L’anima di una squadra, si trova in una sensazione: l’empatia. Cercatela negli occhi dei vostri compagni, il segreto di ogni successo, probabilmente, è tutto lì. Buon calcio a tutti!
Riccardo Perandini