AMARCORD/ Quarantatre primavere… e non sentirle: Renato Martinelli, immarcescibile stopper
by Redazione Calcio Dilettante Veronese 8 Febbraio 2013Quarantatre primavere e non sentirle. Ancora vivo è il brivido per un pallone che rotola su un prato verde, ancora intenso è il sentimento per la passione di una vita. Il tempo del meritato riposo, per Renato Martinelli può aspettare: intatto è il fisico da granatiere, intatta è rimasta la voglia di rendersi protagonista con le bullonate ai piedi. Il capitano del Cologna non si ferma, solcando i mari del calcio con la stessa voglia e la stessa tempra di quando, a soli diciotto anni, faceva capolino tra i grandi del pallone di casa nostra. Il suo è un viaggio lunghissimo, fatto di corse e di sacrifici, di vittorie e di un pizzico di romanticismo, che zampilla gioioso tra il giallo e il blu della maglia che porta addosso. Quella del Cologna Veneta, la squadra degli inizi e di una vita spesa per i sentieri del calcio. Fermiamoci un istante, e ripercorriamone la carriera: vale sempre la pena, di gustare il profumo dell’amarcord.
Renato Martinelli, 43 primavere sul groppone e ancora ringhia sugli avversari con la stessa grinta di un tempo. Cosa la spinge a rimettersi ancora gli scarpini?
“La passione prima di tutto, che è rimasta quella di sempre. La voglia di stare nel gruppo e il piacere del sacrificio, che in venticinque anni di carriera non mi è mai mancato”.
Torniamo indietro nel tempo. Il mare della memoria è vastissimo, innumerevoli sono i ricordi da ripescare. Dovendo scegliere, quale momento eleggerebbe come il più bello della carriera?
“La vittoria della Coppa Veneto a Minerbe, ma dico tutti e sette gli anni fatti a Minerbe. Fu di gran lunga il periodo più intenso e più bello di tutta la mia carriera”.
L’episodio curioso? Lo scherzo, l’aneddoto mai svelato?
“Potrei dirne un sacco, ma ne cito uno. Un giorno, per fare uno scherzo a un mio compagno, falsificai un comunicato scrivendo che un mio compagno era stato squalificato per gesti scurrili nei confronti dell’arbitro. Quando l’allenatore venne a saperlo, fu esilarante: ci fu il proverbiale cazziatone per il mio compagno, il quale, attonito, rispose che l’unica cosa che aveva fatto era il non aver dato la mano all’arbitro. Fu uno scherzo epico, ridemmo come matti”.
L’allenatore che le è rimasto nel cuore?
“Verdolin degli anni a Minerbe. Ma dico anche Lissandrini e il mio attuale tecnico del Cologna, Silvio Donadello, che mi sta sorprendendo per come lavora e per come vive con noi il campionato”.
Il compagno più forte?
“Mirko Cucchetto, un grande”.
L’avversario più temibile?
“Turani, uno che non mollava mai”.
Il goal da ricordare?
“A Caprino, giocavo nel Minerbe. Segnai di sinistro, incredibile. Se penso che di solito lo uso solo per camminare, figuriamoci se credevo di riuscire a segnarci un goal col piede mancino!”.
Lei una volta era uno stopper, uno di quelli che, diciamo così, interpretavano la parte: occhi sul nemico, e nulla più. E’ ancora così?
“No, il ruolo dello stopper nel calcio moderno non esiste più. Però che lotte: ti concentravi sull’avversario da marcare, e per tutta la partita lo seguivi, dovunque andava. Con le buone o con le cattive dovevi fermarlo, non avevi altri compiti. Era un altro calcio, un altro modo di intendere il ruolo del difensore”.
Meglio il calcio di oggi o il calcio di ieri?
“Io preferisco quello di oggi, più tecnico, più organizzato, più competitivo. Quello di ieri aveva più sentimento, ma non cambio opinione”.
Venticinque anni di lotte con gli attaccanti: come valuta il suo rapporto con gli arbitri?
“Bene, io cerco sempre di rispettarli e di aiutarli, non sono di quelli che odiano il direttore a priori. Però mi infastidiscono gli smaniosi di protagonismo, rovinano solo le partite”.
Seguiamo il corso della sua carriera, per venticinque anni non ha mai smesso. Qual è il segreto di tanta longevità?
“La passione, senza non si va da nessuna parte. La voglia di mettermi in discussione, di imparare a gestire la mia vita privata in funzione del calcio, di curare l’alimentazione. Calcio e vita quotidiana in me spesso si fondono, e questo connubio non mi è mai dispiaciuto. Anzi, è la molla che mi permette di giocare ancora oggi”.
Un messaggio ai giovani: che consiglio darebbe alle nuove leve?
“Di metterci passione, di imparare a impegnarsi divertendosi, e soprattutto a capire che ogni obiettivo, ogni desiderio che si ha bisogna meritarselo. Nella vita ci vuole sacrificio, e oggi i giovani ne hanno perso il significato. Ne ho visti tanti con grandi potenzialità, ma senza la capacità di gestirsi. Ripeto, ci vuole sacrificio in tutto: questo è il mio messaggio”.
Concludiamo, Renato. Proviamo a ipotizzare il futuro: quali sono le tue prospettive?
“Intanto finchè il fisico regge continuerò a giocare, su questo non ho dubbi. Poi penso che resterò nel mondo del calcio, ma di sicuro non come allenatore. Vedrò cosa fare, ma non ho fretta: io sono ancora un calciatore, e sento che manca ancora un po’ al termine della mia carriera”.
Riccardo Perandini