Andrea Facchin, passo d’addio di un grande stopper dai modi gentili
by Redazione Calcio Dilettante Veronese 24 Maggio 2013Andrea Facchin è il volto della pacatezza. Lo noti per il fare composto, educato, per i modi gentili e garbati. In campo, come nella vita, si contraddistingue per l’aplomb distaccato, l’aria serena con cui s’affaccia al mondo, la capacità di essere sempre tra le righe. Mai assente, mai esagerato, mai banale. Nemmeno quando la goliardia della compagnia prende il sopravvento. Difensore poliedrico, arcigno, dallo stile asciutto, senza troppi fronzoli, è il capitano del sorprendente Santo Stefano di Zimella, giunto alla finale play-off del girone B di Prima Categoria. Classe 1975, è una delle colonne della formazione di Matteo Fattori. L’esperienza di ventun anni di carriera, iniziata nel lontano 1992 coi colori del Lonigo, la squadra del suo paese natale, la porta dipinta in volto, con la classe e il buonsenso di chi, pur conoscendo a memoria la parte, si rimette sempre in discussione, come se ogni anno si ricominciasse da zero. Dopo tante battaglie, potrebbe regalarsi una grande soddisfazione. Si chiama Promozione: mai come ora vicina al Santo Stefano. L’ultima, probabilmente. L’ultima nota di una carriera che, salvo ripensamenti, sta volgendo al fatidico passo d’addio:
“Forse a fine anno smetterò – ammette Andrea – credo sia arrivato il momento. Non è ancora detta l’ultima parola però, devo ancora parlarne con la società”.
Ventun anni di carriera. Se dico esordi, cosa vedi?
“Vedo Lonigo, il mio paese. Lì ho scoperto il calcio, ho tirato i primi calci ad un pallone. Lì mi sono iscritto alla Scuola Calcio e ho fatto tutta la trafila delle giovanili, fino alla Prima Squadra, in cui esordii nel 1992”.
Qual è il ricordo più bello che porti in cuore?
“I rapporti umani. Nel calcio ho avuto compagni che rivedo ancora oggi, anche se sono vent’anni che non giochiamo più assieme. Penso che le amicizie e le conoscenze maturate grazie al calcio mi resteranno sempre dentro”.
La partita più bella?
“Ricordo una gara di Coppa quando ero alla Provese. All’andata perdemmo quattro a zero, al ritorno invece vincemmo per sette a uno. In quel momento vidi l’allora presidente Gianni Mazzon piangere: fu un’emozione forte, che ancora oggi ricordo con grande piacere”.
Il goal più bello?
“Uno col Sarego, lo ricordo ancora. Scendo centralmente e batto a rete: dritta all’incrocio, bellissimo”.
L’annata sfortunata?
“Il ritorno a Lonigo qualche anno fa. Ho subito l’unico infortunio grave della mia carriera”.
L’allenatore che ti ha insegnato di più?
“Quello di adesso, Matteo Fattori. Peccato averlo trovato così tardi”.
Quello che ti è rimasto dentro?
“Ciani e Lissandrini: su tutti li ricordo con grande piacere”.
I compagni amici di una vita?
“Simone Lazzari e Cristian Cunico”.
Il compagno più forte?
“Antonio Bagno, in area, come lui, non c’è nessuno”.
L’avversario più forte?
“Uno su tutti: Mirco Cengia. Fortissimo”.
Da ventun anni calchi i campi di calcio: qual è il segreto di tanta longevità?
“Una vita sana e la voglia di rimettersi sempre in discussione. Ma soprattutto, lo ripeto, i rapporti umani. Giocare a calcio è bello per la compagnia, per le amicizie, per l’abitudine consolante di ritrovarsi, tre sere la settimana, a rincorrere un pallone. Io ho ancora voglia di giocare e di sudare, e per questo sono ancora in campo”.
Concludiamo, Andrea. Sei al tuo passo d’addio: qual è il consiglio che daresti ai giovani che si affacciano al calcio?
“Di prenderlo come un piacere, perchè così dev’essere, soprattutto a livello dilettantistico. Devono aver la sensazione di divertirsi, se non si gioca volentieri non ha senso infilare gli scarpini. Ma poi dico: quando iniziate, metteteci voglia, è il segreto di tutto. Devono imparare a sudare e a fare sacrifici: questo è il mio consiglio”.