Le memorie di Matteo Fattori, sergente buono del calcio veronese
by Redazione Calcio Dilettante Veronese 16 Agosto 2013Le memorie del sergente buono. Via i panni dell’allenatore, accantonati per un istante i progetti per la sua Provese, spazio aperto al passato, in mezzo a ricordi, gioie, emozioni, aneddoti di una vita che fu.
Matteo Fattori torna indietro nel tempo e riporta a galla i simboli, i significati, i passaggi più autentici di dieci anni di professionismo. Dall’esordio in A col Verona ai viaggi per l’Italia pedatoria, passando per i volti conosciuti, i momenti critici, i derby, i rapporti coltivati in un decennio intenso tutto da raccontare. Con lo stile di sempre: sobrio, composto, mai banale. Come non potrebbe essere altrimenti.
Mister, iniziamo. Sei bambino, vedi un pallone e..
“Lo calcio, ma per stare con gli amici. Giocavo per stare in compagnia, ma inizialmente non mi piaceva il calcio. Si giocava per le strade di Borgo Roma, dove sono nato e dove tuttora vivo. Lì è iniziata la mia storia nel calcio”.
La prima squadra?
“L’Alba, la squadra del mio quartiere”.
Poi l’Hellas, per anni e anni. Qual è il ricordo più bello che conservi delle giovanili gialloblù?
“Non ce n’è uno in particolare. Tutto il periodo fu fantastico, perchè all’epoca era difficilissimo essere confermato, e io sono arrivato fino in prima squadra. Erano altri tempi, tutto aveva un altro significato. Fu un periodo intenso, ma bellissimo, di grande crescita”.
L’allenatore che ti ha dato di più nel vivaio?
“Tecnicamente Baruffi, poi Maddè, che mi ha completato tatticamente”.
Il compagno più forte?
“Gasparini e Centofanti”.
Esordisci in prima squadra nell’88-89 nel Verona di Bagnoli, qual è il ricordo più intenso di quel momento?
“L’emozione dell’esordio in sè, coronavo anni di sacrifici: la porto nel cuore”.
Da quella gara partì una lunga carriera nel professionismo. L’annata più bella?
“Il primo anno a Legnano, ricordo ancora quanto ci tenevamo, quanto significato aveva per noi giocare per la maglia. Arrivammo terzi, ogni settimana ognuno di noi non vedeva l’ora di arrivare al campo. C’era un gruppo stupendo, fu l’annata migliore”.
Quella storta?
“A Leffe, avevo 26 anni. Dovevo passare al Cittadella, c’era un triennale pronto. Mi ruppi il crociato e non se ne fece nulla. E’ il mio rimpianto più grande”.
Un occhio ai rapporti: l’amico conosciuto sul campo?
“Per me nel calcio professionistico le amicizie non esistono, o sono pochissime. Io ricordo Guiotto, dei tempi del Suzzara. Ancora oggi siamo in contatto”.
L’allenatore in prima squadra che porti nel cuore?
“Zecchin del Tempio Pausania”.
Momenti da ricordare: il goal più bello?
“A Castiglione, tiro all’incrocio che valse la salvezza”.
Quello più importante?
“A Suzzara in C2, valse una salvezza insperata”.
La partita da ricordare?
“Due derby: Frosinone-Latina, quand’ero al Frosinone, e Tempio Pausania-Torres, quand’ero al Tempio: fui tra i migliori in campo, una grossa soddisfazione”.
Veniamo al passato recente: l’annata da incorniciare come allenatore?
“Tre: Gazzolo, Caldiero e Santo Stefano”.
Quella da cancellare?
“A San Martino, non c’erano le condizioni per lavorare bene”.
Da ex professionista, cosa apprezzi del dilettantismo?
“La conduzione familiare e l’intento di costruire sempre buoni rapporti, a livello umano si sta molto meglio”.
Il difetto?
“A volte, il troppo pressapochismo. Si può fare calcio a questi livelli, ne sono sicuro. Non può e non deve essere solo un gioco, altrimenti si va sotto la chiesa”.
Cosa si può portare dai pro ai dilettanti?
“La filosofia di insegnare il calcio. Bisogna provarci, sempre. Vedo squadre in Eccellenza vincere con continui lanci lunghi. Per me quello non è calcio, non conta solo il risultato. Se si insegna a giocare a calcio il risultato può essere la conseguenza, e nella maggior parte dei casi lo è. Se non si semina nulla invece…”
Concludiamo mister. Un consiglio ai giovani: cosa diresti a chi si avvicina al calcio?
“Abbiate voglia di divertirvi e umiltà, perchè non si finisce mai di imparare”.