LINEA DIRETTA/ Peripezie autunnali:quo vadis, Ottobre?

LINEA DIRETTA/ Peripezie autunnali:quo vadis, Ottobre?

by 2 Ottobre 2012

 

Ottobre incalza, con la proverbiale ventata di novità che contraddistingue il cambio di stagione. L’autunno penetra nella Verona calcistica, coi suoi ritmi, le sue ricorrenze, le sue consuetudini più consolidate. Per le vie gli alberi ingialliscono, le foglie scivolano via dai rami, caduche, come i proclami estivi, che lasciano il passo alle verità del campo. Il campionato procede con passo lemme, rallentato da una sosta che permetterà a molti di risolvere qualche interrogativo di troppo. Nonostante l’interruzione, comunque, non mancano spunti interessanti di cui parlare.

Tra gli elementi curiosi d’inizio stagione, al momento, uno spicca su tutti: l’eterna diatriba scatenata dalle foto per l’almanacco. Storia arcinota, appuntamento classico per il dilettantismo. L’aleggiare di incredibili superstizioni, però, ha trasformato uno dei riti più consueti del calcio di casa nostra in un grottesco, clamoroso psicodramma. La scaramanzia, l’abbiamo detto, lo ripetiamo ora, è lo stucco del nostro romanzo popolare. Presa a piccole dosi suscita interesse, simpatie, genuina ilarità. L’eccesso, però, è aberrante. Rifiutare un servizio già accordato con il fotografo perché “porta male” è ridicolo, figlio di un’educazione da cavernicoli. Ci stanno la battutina, la frecciatina, la toccata catartica. Ma i mugugni e i rinvii improponibili, no. Se vedete del ferro abbracciatelo, se avete del peperoncino mangiatelo, se vi avanza del sale spargetelo dietro le porte. Alzate pure gli occhi al cielo, ripetendovi quanta pazienza ci vuole nella vita, ma abbiate buon cuore: sottoponetevi all’annuale supplizio fotografico, la buon’anima che vi sta di fronte vi ringrazierà.

E cambiamo discorso. Voltando pagina, notiamo come ottobre ci riservi uno dei capitoli più epici del dilettantismo. Un interrogativo irriducibile, mitologico, a metà tra buonsenso e pigrizia, tra psicologia e fisioterapia. Col sorriso beffardo, sorge al martedì sera, insinuandosi negli spogliatoi, puntuale come uno svizzero. Fuori il sole è già sceso, l’aria comincia a raffreddarsi, e l’allenatore gironzola con fare accigliato, piazzando per terra misteriosi paletti. Dentro la gente mormora, chiacchiera, rimugina su ciò che poteva essere e non è stato due giorni prima. Dopo la vestizione e il confronto di rito sulla partita domenicale, sibila un sussurro, simile ad un grugnito. “Mister…” L’allenatore, psicanalista nato, sa già cosa sta per sentire. Si finge però interessato, e corruga la fronte mostrando attenzione: “ Mister, go mal, sento tuto indurio, no so se ghe la fo a far el carico ”. In quel mentre, l’uomo col fischietto e il cronometro al collo, passa in un secondo da Freud alle scienze motorie, prende fiato, e con sguardo bonario, risponde evangelico: “ Proa a gestirte, pena che te senti mal fermete ”. Padre e dottore, prete e amico. Neanche Ulisse, che Omero definiva polùtropos, dalle mille possibilità, saprebbe far meglio. Provate a dire il contrario, se ci riuscite.

Concludiamo con il pezzo forte, la ricorrenza irrinunciabile, la consuetudine più poetica: la cena di squadra. Appuntamento fondamentale, quasi religioso, tappa tassativa per ogni squadra. Ad ottobre tutti, anche i ritardatari incalliti, hanno organizzato la fantomatica cena. Attorno ad un tavolo, l’umanità seduta produce fenomenali evoluzioni dell’homo sapiens sapiens, da cui discendiamo. Ci sono l’anarchico e l’insaziabile, il curioso e l’indifferente, il trasgressivo e l’intenditore, il peggiore in assoluto. Appetiti astronomici abbracciano l’ anarchia alimentare, e la consueta abbondanza frantuma gioiosa i dogmi del galateo. Davanti ad un piatto fumante le squadre escono allo scoperto, parlano, si conoscono, commettono simpatiche trasgressioni: diventano, in poche parole, un gruppo, dove tutti sono sullo stesso piano. Guardatelo, l’inflessibile capitano, mentre ordina il terzo piatto di risotto: sta vivendo il suo momento di gloria, e nessuno ha il diritto di rovinarglielo. Capito perché sono obbligatorie?

 

Riccardo Perandini