Un pallone, i genitori, i figli: ieri era poesia, oggi…
by Redazione Calcio Dilettante Veronese 31 Maggio 2013C’era un tempo in cui il gioco all’aria aperta profumava la vita familiare. Nei parchi e negli spazi verdi si vedevano padri che rincorrevano i figli, mamme che azzardavano poetiche partecipazioni pallavolistiche, epici scontri tra fratelli e sorelle. Il solleone nel cielo, l’aria buona, la voglia di stare insieme: chi l’ha vissuto si ricorda bene. In quei pomeriggi brillava l’amore di un nucleo familiare coltivato seguendo le traiettorie di un pallone. Tra corse, capitomboli, risate, battute, simpatiche prese in giro. Il gusto della sfida sfociava in quello per la compagnia. Oggi quel quadretto, quel locus amoenus, sembra essere un ricordo lontano.
Non che le famiglie non giochino più all’aria aperta. La base è quella e non si cambia, la scintilla scocca sempre puntuale durante le belle giornate. Il problema è il dopo. Quando gli anni passano e i figli crescono si perde il concetto di gioco, di divertimento tramite lo sport. Girando per i campi della provincia quello che si nota è questo. E’ terrificante, se si considera l’età dei pargoli. Ogni partita è una Stalingrado, fuori, sulle tribune, c’è un clima da guerra fredda. Basta un fallo, un rigore dato o non dato, un goal sbagliato, che comincia la sagra del rimpianto misto all’insulto.
Gli occhi pieni di luce dei genitori nei parchi assumono un’aria sinistra, densa di aspettative spropositate. Sui loro volti si legge una tensione vibrante. Il piccolo in campo corre, gioca, vorrebbe solo divertirsi. Da fuori invece piovono urla ad ogni rimbalzo del pallone. Guardatevi in faccia e pensate se non è vero.
Se il bimbo non riesce si sentono mormorii, battutine evitabili, frasi deluse. Se invece è bravino è riempito di complimenti, di raccomandazioni, di improbabili consigli. Ci son genitori che, forti di un nobile (?) passato di Seconda Categoria, discettano come cattedratici di Coverciano. Loro sanno, hanno visto, hanno vissuto tutto sulla loro pelle. Magari avevano due ferri da stiro al posto dei piedi, ma il loro ricordo e la loro opinione valgono più di ogni cosa.
La domanda è: perchè? Non c’è un senso logico in una deriva simile. Se il ragazzino non è bravo e si diverte lo stesso, non perde tempo, impara a stare al mondo. Quello bravo ha certe qualità perchè alle doti, magari, ha aggiunto ore e ore di gioco, da solo o in compagnia. Provando e riprovando, sbagliando e cercando di correggere gli errori. Se il calcio lo spinge a tanta dedizione va fatto giocare: un domani si applicherà nello studio, nel lavoro, nel coltivare i rapporti umani.
Un’altra questione: se i ragazzini litigano, è perchè sentono discorsi sbagliati, vedono e emulano modelli altrettanto sbagliati. Già da piccoli avvertono i primi segnali della cultura del successo, dell’arrivismo, della voglia di essere superiori agli altri. E’ sbagliatissimo: l’unica tensione che dovrebbero avvertire, è quella sana voglia di divertirsi che è fondamentale per la ricerca delle attitudini. Un bambino deve provare, scoprire, inciampare, rialzarsi, scegliere secondo i propri gusti. La voglia di migliorarsi deve rivolgerla verso se stesso, verso i propri limiti.
Fino a 10-12 anni sono tutti uguali. E’ giusto che si confrontino, che assaporino il gusto della sfida. Ma in un clima gioioso, non di preparativi ad una guerra mondiale. I campionati sono una palestra di vita: nient’altro. A fine partita è meglio un panino in compagnia parlando di tutto fuorchè di calcio, rispetto a certi (s)ragionamenti sui goal sbagliati e le diagonali non riuscite. Poi una selezione è comprensibile: nel calcio ci sono vari livelli, a seconda delle capacità è giusto che chi deve salire salga di grado, e chi non è ancora pronto continui a provare e a riprovare. Prima no. Prima deve continuare a giocare come nel parco, con gli occhi che brillano, i genitori che ridono, il pallone che schizza per terra e nell’aria. E voi, lassù in tribuna, ricordatevi quant’era bello, il gusto della spensieratezza: i vostri figli ve ne saranno grati.